L’eolico danese affonda in America, ma non è colpa delle rinnovabili

Le rinnovabili sono il futuro, ma la congiuntura economica rischia di colpirle. A partire dall'eolico. Un caso negli Usa fa riflettere

Giovanni Cirone
La sede della società danese Orsted @ Ørsted/Wikimedia Commons
Giovanni Cirone
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In questa fine d’anno, una cappa asfittica rischia di stringere alla gola solare ed eolico. Al di là delle generiche propagande anti-ambientaliste, infatti, la realizzazione di processi alternativi all’uso di petrolio e gas appare sempre più complicata. Le ragioni sono diverse. Gli alti investimenti che tali processi richiedono sono minati dall’odierno scenario di crisi, ad esempio. Inoltre, è evidente quanto tassi elevati, robusta inflazione, serpeggiante stagflazione imperversino ed incidano nelle e sulle economie occidentali. Dentro questa cornice, infine, trionfa l’ormai perenne stato di guerra: di nome e di fatto. Per queste ragioni, il recente caso della Orsted, leader mondiale nella costruzione di parchi eolici offshore, richiede una particolare attenzione. Probabilmente, potrebbe non essere l’ultimo.

«Menomazioni», ovvero gravi perdite

Con una nota del 1 novembre scorso, è il presidente e amministratore delegato del gruppo danese Orsted, Mads Nipper, a dare la notizia. «L’attuale situazione di mercato con le sfide della catena di approvvigionamento, i ritardi dei progetti e l’aumento dei tassi di interesse – afferma – hanno messo a dura prova i nostri progetti offshore negli Stati Uniti».

Questo il prologo che introduce la pessima notizia sugli offshore Ocean Wind 1 e Ocean Wind 2, che hanno comportato per il gruppo «notevoli menomazioni nel terzo trimestre del 2023». «Pertanto – conclude Nipper – nell’ambito della continua revisione del nostro portafoglio eolico offshore negli Usa, abbiamo deciso di cessare lo sviluppo di Ocean Wind 1 e Ocean Wind 2». Seguono i dati finanziari chiave per i primi nove mesi dell’anno corrente.

Report pubblicato il 1° novembre 2023 dal gruppo Orsted

Le cause del tonfo di Orsted

«Non ci sono dubbi sul fatto che l’industria eolica offshore si stia trovando nel bel mezzo di una tempesta perfetta», ha detto Nipper. La perturbazione? «Tassi di interesse che schizzano», «interruzioni nella supply-chain», «incapacità di ottenere un’accettabile dose di crediti fiscali governativi». In dieci anni, il suo gruppo ha percorso un lungo cammino e ha cambiato pelle. Una muta, da produttore di energia a trazione fossile a protagonista della transizione energetica.

Dopo aver realizzato parchi eolici in mare sull’intero Pianeta, adesso i suoi due impianti offshore al largo delle coste del New Jersey affondano. Ocean Wind 1 e Ocean Wind 2 non hanno sopportato svalutazioni per 28,4 miliardi di corone danesi. Tradotti in euro, si tratta di 3,8 miliardi, quasi il doppio di quanto preventivato nell’agosto scorso: 16 miliardi di corone. Da qui, il tracollo del titolo alla Borsa di Copenaghen. Orsted chiude in calo del 25,7% a 252 corone, portando fin quasi al 60% le perdite accumulate nel corso del 2023.

Trend del settore a picco negli Usa

Nelle acque statunitensi, però, non va a picco solo Orsted. In un pugno di giorni Bp svaluta per 540 milioni di dollari le proprie attività offshore. Il produttore di turbine Xinjiang Goldwind Science & Technology segna un crollo dei profitti del 98%. E ancora: il gruppo norvegese Equinor registra un deterioramento da 300 milioni di dollari sui propri progetti offshore.

Il vento avverso, dunque, proviene dagli Stati Uniti che, nell’eolico offshore, sono arretrati rispetto ad Europa e Cina. L’obiettivo di installazione a stelle e strisce punterebbe a 30 gigawatt entro il 2030. Un’illusione. Tanti i vincoli del programma di sostegno alla transizione verde. A partire dall’ondata di protezionismo voluta dalla Casa Bianca. Un esempio? L’imperativo di ricorrere, in larga parte, a componenti made in Usa. Come dire, globalizzazione… ora sì, ora no.

Schermaglie di un probabile contenzioso

Come riportato da LaPress, adesso Orsted sta cercando di uscire dalla garanzia di 300 milioni di dollari. L’impegno prevedeva che la somma fosse pagata al New Jersey in caso fosse stato abortito il suo primo parco eolico. Dopo il crollo in Borsa, Orsted ha scritto al New Jersey Board of Public Utilities (Bpu), sostenendo il proprio ritiro dall’accordo firmato con lo Stato. L’azione è stata giustificata asserendo che il Consiglio non ha adottato misure definitive per l’approvazione del patto.

La risposta di Bpu non si è fatta attendere: l’accordo di impegno con il gruppo danese è stato approvato il 27 settembre scorso, e quello di garanzia l’11 ottobre seguente. Orsted ha tuttavia ribadito: «Abbiamo ritirato la nostra documentazione perché non stiamo più sviluppando Ocean Wind 1 e quindi non stiamo più perseguendo gli incentivi fiscali relativi al progetto». Infine, il gruppo danese ha conseguentemente stornato ulteriori 4 miliardi di dollari. Traduzione: usciamo dall’eolico offshore negli Usa.

Realpolitik e crisi democrat

L’uscita di Orsted è comunque musica per le orecchie dei repubblicani. Per loro, le rinnovabili sono impraticabili senza massicci sussidi finanziari. Sconfitta dunque, almeno per ora, la visione dei democratici. Quella secondo cui il comparto dell’eolico offshore rappresenta un modo per ridurre l’uso dei combustibili fossili.

Brutta notizia, dunque, per il governatore democratico del New Jersey, Phil Murphy. All’orizzonte, si profilano le elezioni nello Stato federato, con tanto di ferrea opposizione all’eolico offshore come uno dei perni delle campagne repubblicane. Murphy, adesso, sostiene che la sua amministrazione riterrà Orsted responsabile dei propri obblighi di cancellazione.

Il suo New Jersey, tra l’altro, ha ancora altri progetti eolici offshore in diverse fasi di sviluppo. Solo nello scorso mese di agosto, si sono aggiunte quattro nuove proposte. Ad ora, sono in gioco Atlantic Shores, Shell New Energies US e EDF Renewables North America. Piccolo particolare, però: già la settimana scorsa, Atlantic Shores ha lasciato intendere di essere in cerca di un ulteriore aiuto.

De-finanziarizzare il fossile, investire sul rinnovabile

A ben guardare, un impaccio ingiustificato. In media, i costi delle rinnovabili sono infatti diminuiti. La conferma, nel rapporto Renewable Power Generation Costs 2022, pubblicato dall’International Renewable Energy Agency (Irena). Parametrando sul valore Lcoe (proxy per un prezzo medio che chi genera deve ricevere per andare in pareggio nell’intero ciclo di attività), la riduzione spicca. È lampante: per fotovoltaico, solare termodinamico, eolico a terra, geotermia.

Anche se ciò vale meno per eolico offshore ed idroelettrico, dal rapporto si evince comunque quanto le rinnovabili convengano. Addirittura, quanto surclassino i costi di fonti fossili. Un dato? Con l’energia green, il risparmio globale ha toccato quota 520 miliardi di dollari, un taglio robusto sui costi dei carburanti inquinanti. Come favorire questa tendenza? Sovvenzioni o meno, basterebbe interrompere i copiosi contributi a chi opera in carbone, petrolio e gas: dunque, investire sulle rinnovabili, qualunque siano le problematiche esogene del Pianeta.