È stata l’energia pulita a tenere in piedi l’economia cinese nel 2023

Senza l’energia pulita, gli investimenti in Cina sarebbero rimasti stabili. E il PIL sarebbe cresciuto solo del 3%. L’analisi di Carbon Brief

La crescita dell'energia pulita in Cina è vertiginosa © Md Mintu Hossain/iStockphoto

Il 2023 per l’economia cinese è stato un anno indiscutibilmente complicato, con il perdurare della crisi immobiliare che sarebbe poi culminata nel fallimento di Evergrande, la bassa fiducia dei consumatori e la generale incertezza economica e politica. Nonostante ciò, il prodotto interno lordo (PIL) del gigante asiatico è cresciuto del 5,2%, superando così l’obiettivo di «circa il 5%» fissato dal governo. Un risultato che sarebbe stato impensabile senza il comparto dell’energia pulita. Il suo contributo al PIL del 2023 è stato pari a 11.400 miliardi di yuan, poco meno di 1.500 miliardi di euro. Il 30% in più rispetto all’anno precedente. Senza il settore dell’energia pulita, il prodotto interno lordo sarebbe cresciuto appena del 3%. È quanto emerge da un’approfondita analisi di Carbon Brief.

A quanto ammontano gli investimenti cinesi in energia pulita

Particolarmente interessante il dato sugli investimenti, perché è su di essi che storicamente si regge l’economia cinese (la spinta ai consumi è arrivata solo in anni recenti). Quelli nell’energia pulita si sono attestati nel 2023 sui 6.300 miliardi di yuan, poco meno di 820 miliardi di euro. Per avere un termine di paragone, è all’incirca il prodotto interno lordo di una nazione come la Svizzera o la Turchia. Ed è più o meno la stessa quantità di denaro che tutti gli Stati del mondo, messi insieme, hanno investito nei combustibili fossili nell’arco dello stesso anno.

Un volume di risorse gigantesco, dunque. E in spiccato aumento: per la precisione, è il 40% in più rispetto ai 4.600 miliardi di yuan (circa 600 miliardi di euro) dell’anno precedente. Se si allarga lo sguardo agli investimenti in qualsiasi settore economico, si scopre che nel 2023 in Cina sono cresciuti di appena 1.500 miliardi di yuan, cioè circa 195 miliardi di euro. In altre parole, senza l’incremento vissuto dall’energia pulita sarebbero rimasti fermi.

Ma di quali investimenti si tratta, nello specifico? Lo studio di Carbon Brief adotta una definizione piuttosto ampia di “energia pulita” che include rinnovabili, nucleare, reti elettriche, stoccaggio, veicoli elettrici e ferrovie. All’interno di questo comparto, per la Cina sono tre le punte di diamante dell’anno appena trascorso: l’energia solare (inclusa la produzione di pannelli), i veicoli elettrici e le batterie.

Quanto conta (e conterà) la Cina nello scenario energetico globale

In una fase in cui l’immobiliare scricchiola, dunque, la transizione energetica diventa uno dei capisaldi dello sviluppo economico e industriale cinese. Un fatto di cui l’esecutivo di Pechino non può non tenere conto, nel perseguire le proprie politiche climatiche. Già lo scorso anno, come riferisce l’Agenzia internazionale dell’energia (IEA), la Cina ha commissionato una quantità di energia solare fotovoltaica equivalente a quella del mondo intero nel 2022. Tanto da essere destinata a centrare con sei anni di anticipo i suoi obiettivi per il 2030, in termini di installazioni di eolico e solare. L’effetto traino si ripercuote sul mondo intero, come peraltro dimostra l’impegno congiunto con gli Stati Uniti a triplicare la capacità di energia rinnovabile nell’arco del decennio.  

L’espansione della capacità manifatturiera della Cina, sottolinea tuttavia l’analisi di Carbon Brief, di fatto ha già saturato il mercato globale. Il rischio, quindi, è che si vada incontro a un eccesso di capacità. In tal caso, potrebbe essere necessario diversificare gli investimenti, puntando su altre tecnologie per le quali c’è ancora spazio di crescita (gli elettrolizzatori, per esempio). Dal canto loro, i Paesi esteri potranno approfittare dell’enorme offerta di pannelli solari, batterie e auto elettriche made in China, venduti a prezzi stracciati proprio in virtù dell’eccesso di offerta. Oppure, potranno diversificare le catene di approvvigionamento, anche attraverso sussidi e tariffe di importazione. Una scelta, quest’ultima, che spronerebbe altri mercati portando a un ulteriore abbassamento dei prezzi.