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Emergenti vs dollaro: la sconfitta annunciata scatena una nuova crisi

Nei mercati emergenti tira aria di crisi. Il rischio contagio esiste e interessa anche le banche europee. Turchia e Argentina osservate speciali

Matteo Cavallito
La difesa di Andre Iguodala su Hidayet Türkoğlu durante la finale del Mondiale di Basket 2010 tra USA e Turchia. Tanto per cambiare vinsero gli americani (81-64) © Christopher Johnson/Wikimedia Commons
Matteo Cavallito
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Sebbene a fasi alterne il vento della crisi valutaria soffia forte sui mercati emergenti più esposti. Lo sostiene un’analisi di Nomura che punta il dito sul rischio contagio proveniente da Argentina e Turchia, le due nazioni che nel corso del 2018 hanno patito maggiormente le conseguenze dell’apprezzamento del dollaro USA.

Nei prossimi 12 mesi, sostiene la società giapponese ripresa, tra gli altri, dal Financial Times, un’ondata di svalutazioni potrebbe travolgere altri cinque Paesi: Egitto, Pakistan, Sri Lanka, Sudafrica e Ucraina. L’instabilità politica che caratterizza le medesime aree, inoltre, potrebbe contribuire a una crescita della tensione sui mercati.

Una spada sugli emergenti

A segnalare il rischio è il cosiddetto Damocles Index, un indicatore elaborato da Nomura per identificare in anticipo una possibile escalation della crisi valutaria. Combinando una serie di fattori, l’indice attribuisce un punteggio a trenta Paesi emergenti misurando il rischio nel breve e medio periodo: un valore superiore a 100, ad esempio, evidenzia la possibilità concreta di una crisi valutaria nello spazio di un anno; un dato oltre quota 150, invece, segnala l’ipotesi che l’evento critico si verifichi da un momento all’altro.

Secondo l’ultima rilevazione lo Sri Lanka vivrebbe oggi la situazione peggiore con un punteggio di 175; sul podio si collocano quindi Sudafrica (143) e Argentina (140) che precedono nell’ordine Pakistan (136), Egitto (111), Turchia (104) e Ucraina (100).

Super dollaro

La crescita del valore del dollaro, sostenuta anche dal progressivo rialzo dei tassi da parte della Fed, impatta soprattutto sull’indebitamento dei Paesi emergenti. Nel caso dello Sri Lanka, nota Nomura, a preoccupare maggiormente sono le scarse riserve in biglietti verdi che si contrappongono a un elevato debito estero a breve termine. Ma gli aspetti critici non si esauriscono qui.

La relativa calma vissuta nei primi giorni di settembre non esclude il rischio di una nuova ondata di volatilità nei mercati valutari, ha sostenuto l’ex presidente del Global Development Council dell’amministrazione Obama, Mohamed A. El-Erian, in un’analisi pubblicata da Bloomberg. Determinanti, secondo l’opinionista, l’incertezza politica nelle aree emergenti nonché le tensioni sul fronte degli scambi globali (leggasi guerra commerciale di Trump alla Cina) e l’evoluzione delle politiche monetarie delle banche centrali.

Ma l’aspetto più importante, forse, è relativo alle non scelte dei governi: «Né l’Argentina né la Turchia», scrive El-Erian citando i due casi più eclatanti, «hanno prodotto finora quella combinazione di adeguamenti strutturali e apertura di nuovi canali di finanziamento capace di ricondurre le loro economie sulla strada della stabilità».

Turchia: effetto contagio?

Il 14 agosto 2018 la lira turca ha fatto registrare il suo record negativo nel cambio con il dollaro cedendo oltre il 40% rispetto ai valori di inizio anno. Il lieve recupero sperimentato nelle tre settimane successive non è stato risolutivo. Quello di Ankara è un caso da manuale: elevato debito a breve scadenza in valuta estera (181 miliardi di dollari), riserve scarse, export a rischio.

Il 10 agosto Trump ha dato il via libera al raddoppio dei dazi sull’acciaio e l’alluminio turco scatenando un discreto panico tra gli operatori. Ad oggi la Turchia è il sesto fornitore mondiale di acciaio degli Stati Uniti con una quota di mercato del 5,6%; al primo posto tra gli emergenti (e al secondo nella classifica mondiale dietro al Canada) c’è il Brasile che copre da solo il 13,2% dei volumi in entrata.

Il rischio contagio resta elevato: da un lato le valute emergenti; dall’altro le banche europee che sul debito turco (in dollari) sono particolarmente esposte. Tra gli istituti nel mirino, osserva Fortune, la spagnola BBVA, l’italiana UniCredit e la francese BNP Paribas.

Lira turca Vs dollaro. Fonte: tradingeconomics.com

Argentina nelle mani del FMI

L’Argentina da parte sua segna numeri da record. Il 30 agosto la Banca centrale ha alzato il costo del denaro a quota 60%, attuale primato del mondo. Con il peso in caduta libera, il presidente Macri ha chiesto al Fondo Monetario Internazionale di accelerare i tempi nell’erogazione degli aiuti finanziari al Paese. L’intervento previsto ammonta a 50 miliardi: la cifra più alta mai concessa a una singola nazione. Il tracollo della valuta fa aumentare il rischio default del debito estero a cui il Paese ha fatto crescente ricorso negli ultimi anni.

L’intervento del FMI potrebbe scongiurare la nona bancarotta della storia argentina ma l’operazione ha ovviamente i suoi costi. A Buenos Aires sono già scattate le prime misure di austerity: taglio alla spesa e introduzione di nuove tasse sull’export che colpiranno in primo luogo le materie prime per portare, si stima, circa 11,4 miliardi di dollari nelle casse pubbliche nel corso del 2019.

L’operazione rischia seriamente di spezzare l’idillio con la lobby agricola, storica sostenitrice del presidente. I sindacati, nel frattempo, sono sul piede di guerra e hanno indetto uno sciopero generale per il 25 settembre prossimo. La dottrina Macri è giunta da tempo al capolinea.