E-commerce e tasse: per Amazon e soci è sempre Natale

Le 25 maggiori web company in Italia hanno fatturato 2,4 miliardi e pagato tasse per 103 milioni: una "aliquota" del 4,3%. E sulle riforme, UE e OCSE non convincono

Matteo Cavallito
Il centro logístico di Amazon España a San Fernando de Henares (Madrid). I colossi del websoft sperimentano una forte crescita dei profitti pagando al tempo stesso tasse molto ridotte © Álvaro Ibáñez/Flickr
Matteo Cavallito
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Cosa resterà di questi anni ’10, la decade delle tasse post crisi, degli influencer in senso lato e dell’e-commerce globale? Poco, pochissimo. Almeno per gli Stati, che dal commercio online hanno tratto e, con ogni probabilità, continueranno a trarre benefici risibili per le casse pubbliche. Fine del decennio, tempo di bilanci. E poi siamo a dicembre, figuriamoci, mese tradizionalmente favorevole agli acquisti retail. Le spese di Natale, per dire, hanno fatto seguito a un Black Friday da record, anche qui in Italia dove le previsioni del Codacons parlano di una spesa pro capite di 117 euro (+20% sul 2018) con un giro d’affari previsto da 2 miliardi di euro. Ebbene, il 70% del fatturato si materializza nel commercio online (1,4 miliardi) e anche qui c’è un bel trend rialzista: +13% rispetto a 12 mesi prima. Tutti soddisfatti, anzi, entusiasti. Eccetto il fisco ovviamente.

Occhi puntati sui giganti internet

Dal dibattito sull’elusione alla web tax, il passo è brevissimo, quasi nullo. E il tema è sempre il solito: le corporation registrano profitti da capogiro. Ma le tasse, si sa, sono quello che sono e nonostante un decennio di pressioni governative in sede nazionale e internazionale – specie dopo la crisi – dal circolo vizioso proprio non si esce. Il tema del trattamento fiscale delle corporation non è una novità. Ma il dibattito specifico sui giganti tecnologici è esploso in modo particolare negli ultimi anni.

Merito, per così dire, della crescita vertiginosa del settore e dell’implicita concentrazione di potere che tutto questo ha determinato.

Cinque società valgono oltre $4 mila miliardi

Nei primi anni del XXI secolo, la classifica delle principali società di Wall Street premiava molti settori diversi, tra cui finanza, energia e grande distribuzione. Nell’ultimo decennio però lo scettro è passato al digitale e alla rete. Escludendo la new entry Saudi Aramco (sulla cui valutazione molto ci sarebbe ancora da discutere) i giganti del Nasdaq svettano su tutti nella classifica del valore di mercato. A giugno, i cosiddetti Big Five – Microsoft, Amazon, Apple, Alphabet (leggi Google) e Facebooksuperavano insieme i 4 trilioni di dollari di capitalizzazione azionaria. Sei mesi prima, queste stesse corporation avevano chiuso l’anno con 800 miliardi di dollari di fatturato e quasi 140 di utile.

Tutto si muove grazie all’e-commerce

Nel mondo dei servizi il refrain è sempre il solito: se una cosa è gratis il prodotto sei tu. Come dire pubblicità sempre più su misura e liste dei desideri. L’anima del commercio insomma. E non è un caso che ad inseguire i colossi americani ci siano soprattutto i colleghi cinesi, a partire da Tencent e Alibaba, che offrono di fatto i medesimi servizi. Perché l’e-commerce, si sa, è fatto di tanti click. E dietro all’opzione “acquista” scelta da ogni consumatore ci sono ovviamente i device per navigare, i software per orientarsi e gli infiniti stimoli social che plasmano i desideri. L’e-commerce, insomma, è un’enorme filiera di colossi materiali e immateriali, capace negli ultimi anni di crescere a ritmi impressionanti. Pagando, nel mentre, pochissime tasse.

Tasse: il web ha risparmiato $50 miliardi in 5 anni

Alla fine di novembre Mediobanca ha fotografato il quadro complessivo offerto dai 25 maggiori operatori del Websoft (Software & Web Companies): 14 hanno sede negli USA, 7 in Cina, 2 in Giappone e 2 in Germania. Dal 2014 ad oggi il giro d’affari è cresciuto del 20%, «oltre sei volte rispetto a quello delle multinazionali manifatturiere (3,1%)». Ma c’è il rovescio della medaglia: più o meno metà dell’utile ante imposte è tassato in Paesi a fiscalità agevolata, una caratteristica che ha consentito alle multinazionali del settore di risparmiare sulle tasse circa 50 miliardi di dollari. In Italia, le imprese del comparto hanno fatturato nel solo 2018 oltre 2,4 miliardi di euro. Versando al fisco appena un centinaio di milioni: 64 di tasse e 39 di multe.

Stallo UE su economia digitale e tasse

Nel marzo del 2018 la Commissione Europea ha lanciato le sue proposte per il pacchetto “A Fair and Effective Tax System in the EU for the Digital Single Market”. Nell’elenco anche le direttive sui servizi digitali e relative tasse. L’idea era quella di raggiungere un accordo entro la fine dello stesso anno. Ma all’inizio del 2019, ricorda una recente nota di KPMG, i Paesi membri non erano nemmeno riusciti a trovare un’intesa su un provvedimento assai più modesto, la Digital Advertising Tax, che prevede soltanto alcune tasse sulle pubblicità online.

Ad oggi, come confermano a Valori fonti vicine alla questione, «la trattativa si è arenata. Tutto fermo».

A pesare è soprattutto l’opposizione di quattro Paesi: Danimarca, Irlanda, Malta e Svezia. Francia e Italia (dal 1 gennaio 2020, salvo modifiche dell’ultimo minuto), in compenso, sono pronte a introdurre le loro rispettive tasse nazionali. Ma nel futuro delle imposte digital c’è l’incognita della reazione statunitense dopo che Trump, nelle scorse settimane, ha minacciato proprio Roma e Parigi paventando in tal senso l’ipotesi di nuovi dazi punitivi.

OCSE vs multinazionali (con qualche incognita)

Le iniziative nazionali possono anche essere più che giustificate. Ma, ritorsioni (americane) e ricadute sulla competitività (capacità di attrarre investimenti? Discussione infinita) a parte, si tratta comunque di interventi a impatto limitato. Servirebbero insomma regole internazionali, norme valide per tutto il mondo o per lo meno per le economie più importanti del Pianeta.

L’OCSE ci sta lavorando dal 2015, anno di lancio del programma BEPS 2.0. La sigla richiama il fenomeno della cosiddetta Base Erosion and Profit Shifting, ovvero erosione della base imponibile attraverso il trasferimento degli utili nelle aree dove si pagano meno tasse. Una tattica consolidata per tutte le corporation.

Dettagli a parte, si tratterebbe di  riconoscere ad ogni Paese il diritto di tassare i profitti di una corporation economicamente presente nel suo territorio (anche se i profitti sono stati preventivamente trasferiti a una sussidiaria registrata in un paradiso fiscale) fissando al tempo stesso un livello minimo garantito di tasse sugli utili. L’idea, insomma, è quella di vanificare, in parte, le operazioni di elusione fiscale delle grandi imprese. In attesa di un accordo tra i vari Paesi, l’efficacia delle proposte, per ora, è difficile da valutare. Nel mirino, in particolare, la complessità delle norme e le incertezze tuttora da chiarire. Oltre ovviamente agli aspetti tecnici e alla richiesta di adozione di criteri condivisi. Questioni essenziali che in materia fiscale, si sa, fanno sempre la differenza.